Ulisse da Baghdad è un libro regalatomi anni fa da un’amica francese, una grande viaggiatrice dalla spiccata sensibilità. Me lo sono letteralmente divorato e ho iniziato a regalarlo ad amici e conoscenti, ragion per cui ritengo di dovergli dedicare almeno un post. Non solo per la storia, decisamente commovente, o per lo stile dell’autore, il francese Eric-Emmanuel Schmitt, immediato e raffinato al tempo stesso, ma per l’attualità del tema che affronta dalla prima all’ultima riga.

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Ulysse da Baghdad

Ulisse da Baghdad parte dalla rivisitazione del mito omerico per narrare la storia di un Ulisse contemporaneo che intraprende il viaggio della vita alla ricerca di ciò che è e dell’opportunità di un futuro migliore, per sé e per la sua famiglia.

La vicenda ha inizio nella Bagdad decimata dalla guerra e stremata dall’embargo americano. Il giovane Saad Saad, il cui nome sintetizza al tempo stesso tristezza e speranza, assiste inerme alla morte dei suoi cari: Leila, la fidanzata, che scompare sotto le macerie di un edificio bombardato; il padre, uomo saggio e amante della letteratura che cade durante un alterco con gli occupanti americani; Salma, la nipotina, che muore a soli sei anni per una setticemia incurabile a causa dell’embargo che sta vivendo il paese.

L’Irak simboleggia ormai ai suoi occhi la tristezza per il peso dei lutti che sopporta e restarvi significa rinunciare alla chance di non dover più subire la sconfitta e la fatalità di un paese ingiusto e caotico. Sceglie quindi la strada della clandestinità per raggiungere l’Inghilterra, l’Itaca fantasmagorica.

La sua epopea non ha nulla da invidiare a quella di Ulisse, con un lotto di peripezie e di nemici implacabili che si celano dietro l’apparenza di un mondo civilizzato. Da aspirante terrorista, trasportatore di oggetti d’antiquariato, gigolo di fortuna al Cairo, fidanzato in Sicilia e infine accolto in Francia dai partigiani della lotta per i sans papier, Saad combatte quotidianamente la sua guerra contro la fame, la povertà, l’umiliazione e il razzismo, accompagnato nel suo percorso interiore dalle apparizioni del padre defunto che attraverso una serie di scambi verbali, buffi ed emozionanti al tempo stesso, lo esorta a farsi artefice del proprio destino. Essere un Saad triste o un Saad che simboleggia la speranza nell’avvenire dipende solo da lui.

Approfittando poi degli interstizi tra le tappe del viaggio del protagonista, Schmitt introduce alcune riflessioni sulla condizione umana. Chi protegge l’uomo se non le istituzioni di un paese giusto? Esistono realmente paesi giusti? Un paese giusto ha il diritto di scegliere quali sono gli eletti che proteggerà? Secondo quali criteri? Clandestino non è di per sé una parola che rinnega tutti i valori di umanità e fraternità? Bisogna puntare il dito contro chi tenta di fuggire da un destino sordido?

Le peripezie di Saad Saad consentono di rimettere in discussione le nozioni di identità, di appartenenza a una cultura, di frontiera e l’abilità di Schmitt è quella di riuscire a sollevare questioni rilevanti senza dare l’impressione di voler impartire una lezione moralistica.

Perché non è la sua voce che sentiamo bensì quella di coloro che vivono nascosti, rintanati come bestie braccate, e che in questo libro trovano lo spazio per farsi sentire. Persino i morti hanno il diritto di parola nell’Ulisse da Baghdad.

Non è proprio un libro allegro ma è di quei libri che, inevitabilmente, lascia il segno…

La Globetrotter

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