Ed eccoci a Saint Louis, in Senegal, il Paese che per primo ha ribaltato la mia concezione del mondo liberandomi di assurde costrizioni e odiosi preconcetti. Un Paese che amo al punto da esserci tornata tre volte con lo stesso entusiasmo e la stessa bramosia della prima volta. Il Paese che mi ha aperto le porte dell’Africa rivelandomi un continente profondamente umano e ospitale.
Lo stesso Paese dove ho imparato a prendermi il tempo per assaporare ogni istante, anche il più banale, perché è da un granello di sabbia che nasce il deserto, e dove ho scoperto che viaggiare in solitaria è il modo migliore per non soffrire di solitudine.
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Quando sono rientrata dal primo viaggio in Senegal, nel 2006, avevo la presunzione di aver capito tutto del Paese. Quando l’ho lasciato la terza volta, nel 2010, ho realizzato che ero fortunata se stavo iniziando a capirci qualcosa. Ma di questo parlerò in un’altra occasione. Ora voglio condividere con te un pezzo del mio primo viaggio nel Paese della Téranga, alias l’ospitalità..

Saint Louis, la capitale coloniale del Senegal
Saint Louis si trova nel nord del Senegal, ai confini con la Mauritania. Gli abitanti di Saint Louis, prevalentemente di etnia peul, hanno il colore della pelle più chiaro rispetto al resto del Paese e un accento strascicato, a volte quasi incomprensibile.
La città, in stile coloniale, si affaccia sul mare.
Per raggiungerla, da Dakar, ci vogliono circa sei ore di taxi brousse, un veicolo scassato su cui viaggiano sette persone, escluso il conducente. La mole dei passeggeri è irrilevante ai fini del conteggio e della distribuzione dei posti. Considerato che le donne africane sono spesso delle balene, io finisco sempre spiaccicata sul fondo come una sardina.
Gironzolando senza una meta precisa mi ritrovo nel villaggio dei pescatori. Centinaia di piroghe colorate sono disposte l’una accanto all’altra sulla riva del mare. Molto pittoresco. Ma la bellezza del paesaggio, purtroppo, è deturpata da chilometri di spazzatura.
La mia visita attira l’attenzione di un gruppetto di bambini che mi rincorrono chiamandomi per nome. Toubaaab, toubaaab… Già, perché io qui sono la toubab. La bianca. Lo capisco dalle loro mani tese, accompagnate dalla parola cadeau. Regalo. Io non riesco a fare l’elemosina, è più forte di me. E non solo per considerazioni generali di carattere economico – dicono che regalare soldi sia il modo peggiore per aiutare i paesi in via di sviluppo – ma è il gesto in sé che mi causa disagio. Così, visto che è ora di pranzo, li invito a tenermi compagnia.
Non faccio in tempo a terminare la frase che mi ritrovo accerchiata da una decina di mocciosi. Si sono moltiplicati come funghi. Mi fermo a comprare pane, sardine, frutta e bissap e pasteggiamo tutti insieme allegramente in mezzo a cumuli di spazzatura e capre morte.
Arrivo a sera distrutta e rientro in ostello. Domattina devo alzarmi all’alba. Mi attende l’escursione al Parc Djoudj per soddisfare la mia brama ornitologica.
Inutile aggiungere che l’escursione al Parc Djoudj è stata interessante, ma ti assicuro che il succulento pranzetto condiviso con i mocciosi di Saint Louis in uno contesto a dir poco aberrante mi ha regalato molte più emozioni della vista di migliaia di uccelli che si libravano nell’azzurro del cielo.

La Globetrotter
Sei stato in Senegal? Come ti sei sentito nell’essere chiamato toubab?
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che voglia di andare…
Assolutamente un posto da vivere con la gente… Diana