Quante volte abbiamo udito o immaginato questa frase pensando agli sbarchi di immigrati clandestini sulle coste della nostra bella Italia? Eppure credo di averla riempita di significato solo nel momento in cui ho coperto la tratta dal Senegal al Mali a bordo di un autobus africano. Era febbraio del 2007 e per percorrere i 1.500 chilometri che separano Dakar da Bamako ci sono volute esattamente sessantadue ore. Un viaggio allucinante che mi ha permesso di cogliere l’Africa in tutta la sua essenza e di amarla incondizionatamente, con le sue contraddizioni e i suoi perché.

Ci sono stati momenti, durante quelle sessantadue ore, in cui mi sono data per spacciata. Momenti in cui avrei pagato oro per un goccio d’acqua potabile. Ma tutto l’oro del mondo non sarebbe servito a nulla perché l’acqua potabile non era disponibile. Improvvisamente tutto cambia. La tua visione del mondo, i tuoi valori, le tue riflessioni. Ero con gente che non aveva nulla ma che non ha esitato a condividere quel nulla con me.

Per anni ho continuato imperterrita ad attraversare l’Africa su torpedoni scassati, con la consapevolezza di dovermi rimettere, ogni volta, alla volontà di Allah. Perché in Africa è la fede ad alimentare la speranza…

Con questo racconto, inserito nella raccolta “Viaggi e Parole”, mi sono aggiudicata il 2° posto della prima edizione del concorso letterario “Fuori dal Cassetto”.

alt="Dal Senegal al Mali on the road: il viaggio della speranza"
Dal Senegal al Mali on the road

Il viaggio della speranza

Dal Senegal al Mali on the road

“Ba-ma-ko…Ba-ma-ko…Ba-ma-ko!” gridarono tutti all’unisono un istante prima di chinarsi a baciare il terreno.

Tre del mattino. Bamako. Io, unica bianca in mezzo a una cinquantina di persone di colore, osservavo ammutolita la scena. Una massa informe di uomini e donne distesa a terra, prona, in segno di riverenza. Non ne coglievo pienamente il senso. Come tutti i presenti, anch’io mi sentivo sollevata. Ma la loro reazione mi sembrava esagerata. “In fin dei conti” mi dicevo “siamo arrivati…”

Dopo un po’ uno di loro si alzò. Mi avvicinai a lui e gli chiesi cosa stessero facendo. “Baciamo il terreno per ringraziare Allah di essere giunti a destinazione sani e salvi” mi rispose nel suo francese stentato. “Ogni volta è la stessa storia” continuò il ragazzo. “Sai quando parti e non sai quando arrivi. Per non parlare di quando non arrivi proprio…” “Quindi non sono io a portare iella!” pensai in parte alleggerita da questo fardello. Ciononostante, non riuscii a deglutire l’amarezza suscitata dalle parole del ragazzo. Non si trattava di un caso isolato legato alla sfortuna, ma della tragica normalità.

Esattamente sessantadue ore prima mi ero recata alla gare routière di Dakar in cerca dell’autobus per Bamako. Ero disorientata. Il caos regnava sovrano. Seven place, minibus, taxi e motorini si scorgevano a fatica in mezzo a quel trambusto. Procacciatori di clienti urlavano forsennati le mete più disparate. Bambini senza età scivolavano tra le gambe degli adulti, rincorrendosi l’un l’altro. Animali di ogni forma e dimensione scorazzavano liberi in mezzo alla folla. Venditrici ambulanti dai vestiti sgargianti davano prova di grande abilità facendo lo slalom con una grossa calebasse sulla testa in mezzo a quel flusso disordinato di persone.

Facendoci largo tra la ressa, raggiungemmo l’autobus in partenza per Bamako. Non avevano ancora venduto tutti i biglietti e me ne rallegrai, ritenendolo un segno di buon auspicio.

Erano stati gli amici senegalesi a consigliarmi il tragitto via terra, e mi ero fidata di loro. “Tranquilla Diana. L’autobus è più sicuro e confortevole del treno, meno caro dell’aereo e potrai dilettarti osservando il panorama. È estremamente affascinante!” non avevano fatto altro che ripetere Abdul e Fodé di fronte ai miei tentennamenti. Era bastato poco a convincermi.

“Stia tranquilla mademoiselle” mi aveva detto l’uomo che vendeva i biglietti. “Domani alle diciotto sarà a Bamako.” Mi prese un momento di sconforto. Ventinove ore di viaggio. Secondo l’uomo avrei anche dovuto stare tranquilla. A quel punto Idrissa, che mi aveva accompagnata alla gare routière, si offrì di dare un’occhiata all’interno del veicolo per verificarne le condizioni. “Tranquilla. È ok” mi disse sorridendo. “Okkeey?” pensai esterrefatta non appena vi misi piede sopra. “Mi sa che non abbiamo la stessa concezione di cosa è ok e cosa non lo è!”

Ma avevo già acquistato il biglietto, e il Mali mi chiamava ormai da troppo tempo. Invocai l’ottimismo che di solito mi contraddistingue e che in quel momento sembrava avermi abbandonata e salutai Idrissa con un caldo abbraccio. Montai sul torpedone e presi posto davanti, rincuorata dal fatto che la partenza sarebbe avvenuta nel giro di pochi minuti. Fuori il caldo era torrido e soffocante. Si respirava a fatica. Dentro era peggio. I finestrini erano chiusi ermeticamente. Ventinove ore di viaggio in quelle condizioni avrebbero potuto essermi fatali. Mi rivolsi all’autista sperando in un miracolo. Con uno sguardo ingenuo mi indicò le botole posizionate sul tetto, una davanti e l’altra nella parte posteriore del veicolo. Per la terza volta mi sentii semplicemente rispondere “Tranquilla!”

“Devo stare tranquilla… devo stare tranquilla…” ripetevo mentalmente mentre facevo un rapido calcolo dei posti disponibili. La partenza doveva essere ormai imminente e ce n’erano abbastanza. Inoltre, il sedile accanto al mio era ancora libero e presto avrei potuto rilassarmi allungando le gambe. Pregustavo già quel dolce momento quando un giovane si avvicinò a me. “Posso?” mi chiese indicando l’oggetto dei miei desideri. L’idea di passare ventinove ore senza potermi muovere non mi entusiasmava. “Con tutti i posti liberi che ci sono…” gli risposi affidandomi al suo buon senso. Per tutta risposta, il giovane si accomodò.

Mi guardai attorno sconcertata. Il pullman pullulava di gente. Sembrava essersi materializzata dal nulla. Tutti i posti erano stati occupati e il passaggio in corridoio era completamente ostruito. “Fortuna che mi sono messa davanti. Se mai dovesse succedere qualcosa sono vicina all’uscita” pensai allegramente. Un minuto dopo il ragazzo si alzò per far sedere una donna anziana dalla mole abbondante. “Nagadeff?” mi chiese sorridendo la nuova arrivata sistemandosi accanto a me. Mentre tentava di trovare la posizione migliore per il suo corpo voluminoso, i due bidoni di plastica e la gallina che aveva con sé, iniziò a parlarmi in wolof. Il ragazzo corse in mio soccorso, spiegandole che non capivo la loro lingua. Lei mi guardò un po’ incredula e mi sorrise. Aprì uno dei bidoni e ne estrasse un cartoccio unto. Lo aprì e me lo porse, invitandomi a mangiare. Era montone alla brace, dall’aspetto delizioso e succulento. Mi chiesi quante probabilità avessi di ammalarmi di cancro, visto che era avvolto nella carta di un quotidiano catramoso. Ma rifiutare sarebbe stato inopportuno e sgarbato, per cui allungai la mano e portai alla bocca un pezzo di carne intrisa di chachanga e cipolla cruda. Divino! La donna continuava a parlarmi in wolof, e il fatto di non poterle rispondere mi metteva a disagio. Con lo sguardo frugavo tra la folla in cerca del ragazzo. Ancora una volta speravo nel suo aiuto provvidenziale, ma di lui non c’era traccia in quel groviglio umano. Ogni sedile ospitava in media due o tre persone, senza contare i bambini che sedevano zitti e immobili sulle gambe degli adulti. Il corridoio era stato adibito a magazzino, granaio e stalla. Sudavo come un cammello e non avevo vie di fuga. Erano passate circa due ore dalla presunta partenza. L’autista si era volatilizzato. Reclamare non sarebbe servito a nulla. Quasi nessuno capiva il francese. In quel cubicolo senz’aria mi sentivo prigioniera, e mi maledissi per aver seguito il consiglio dei ragazzi. Fu solo un istante. Dall’alto mi piovve inaspettato tra le braccia un pargoletto nero che mi fissava silenzioso con i suoi occhioni luccicanti. “Se ce la fa lui, e non si lamenta, posso farcela anch’io!” pensai stringendolo a me con calore, prima di renderlo alla madre per la poppata.

Finalmente intravidi la sagoma dell’autista apprestarsi a salire. Si mise al volante, chiuse le porte e avviò il bestione. “Si parte” pensai. Non erano trascorsi nemmeno dieci minuti quando l’uomo arrestò la marcia. Tappa obbligata. Rifornimento. Iniziavo a spazientirmi. “Non poteva pensarci prima a fare il pieno?” esclamai nervosa. Ma nessuno mi udì. Erano tutti indaffarati ad accaparrarsi generi di conforto da alcune donne che, magicamente, erano riuscite a salire a bordo del veicolo. Ripartimmo quasi subito.

Il caldo stava diventando insopportabile. L’odore del cibo si mischiava a quello del pelo animale e del sudore umano. Mancava l’aria. Il sedile era sfondato. Io mi agitavo invano in cerca della posizione migliore che mi consentisse di arrivare a Bamako senza troppi acciacchi. Alla fine, esausta, mi appisolai. Mi risvegliai madida di sudore in mezzo al nulla. L’autobus era deserto, eccezion fatta per la signora seduta accanto a me che non sembrava intenzionata a scendere. Col virtuosismo di un trapezista mi issai in piedi e la scavalcai. Per non calpestare il suo bidone, allungai il piede sul sedile anteriore e riuscii a saltar giù. Finalmente libera. Stentavo a crederci. Mi avvicinai a un gruppo di donne per capire la ragione di quella sosta inattesa. Le mie domande si persero nel loro sguardo desolato. Nessuna di loro parlava francese.

“Española?” mi urlò un ragazzo da lontano. “Italiana” gli risposi sorridendo. “Botta di culo” pensai, “almeno ora posso comunicare con qualcuno.” Il ragazzo si avvicinò a me e si presentò. “Io sono César e vengo dal Congo. Benvenuta in Africa” mi disse stringendomi la mano. Con orgoglio mi raccontò di aver vissuto diversi anni in Spagna, ma di aver scelto di tornare nella sua terra natale per poter stare vicino alla famiglia. Aveva trovato un buon posto di lavoro a Dakar e si stava recando a Bamako in visita alla sorella. A quel punto, si avvicinò a noi una ragazza. Anche lei sola. Come me. Adjo era del Togo e stava rientrando a casa. Giunta a Bamako, avrebbe dovuto prendere un altro autobus per raggiungere Lomé. Mentalmente calcolai quanto tempo avrebbe impiegato. Un’altra quarantina di ore. Ammirai il suo coraggio. Iniziammo a chiacchierare dell’accaduto. Il motore era in panne, le avevano detto. Ci guardammo attorno. Sedevano tutti fiduciosi e silenziosi sul bordo della strada, fissando l’autista e altri tre o quattro uomini che si davano da fare per rattoppare il motore prima che facesse buio. Le zanzare erano sempre più insistenti e fastidiose. Il sole stava calando, ma il caldo non accennava a diminuire.

Dopo ben cinque ore, l’autista esultò. “Si parte” ci disse César, e risalimmo sull’autobus. La signora si trovava ancora nella posizione in cui l’avevo lasciata. Percorrendo a ritroso lo stesso cammino, riguadagnai il mio posto. Rintronata dal caldo, caddi subito in un sonno profondo che durò fino al mattino seguente. Ci fermammo all’alba per rifocillarci e fare benzina.

La sosta fu breve e ripartimmo immediatamente. Guardavo fuori dal finestrino. Una landa desolata. Sfilavamo accanto a terreni incolti in cui predominava il colore rosso della terra. Di tanto in tanto, lo sguardo si arrestava di fronte a un gruppo di case o a qualche albero solitario. Stavamo andando verso il Sahel. Un nome evocativo. Ma non sapevo esattamente cosa aspettarmi.

A un certo punto l’autobus iniziò a singhiozzare. Poi il motore si spense definitivamente. “Dio mio!” esclamai sul punto di scoppiare in lacrime. “È mezzogiorno! Moriremo tutti con questo caldo!” L’acqua era diventata una brodaglia bollente. Imbevibile. Si preannunciava la mia fine. I titoli dei giornali mi scorrevano davanti agli occhi. “Autobus di linea sulla strada tra Dakar e Bamako finisce in panne sotto il sole di mezzogiorno. Tra le vittime, morte disidratate, una giovane donna italiana.” Mi stavo rassegnando al mio crudele destino quando César si avvicinò e mi offrì della frutta. Calda ma dissetante. Mi rincuorai un po’. “Siamo rimasti senza benzina” mi disse desolato. Aspettammo un’ora seduti all’ombra del bestione nella speranza vana che passasse qualcuno. Infine uno dei passeggeri, esasperato dall’attesa, prese una tanica e s’incamminò in cerca del primo centro abitato. Ricomparve dopo circa due ore. Il tempo necessario per stringere amicizia con la metà dei passeggeri. Io ero la bianca, la toubab, come ci chiamano loro. Nessuno dei presenti riusciva a spiegarsi perché avessi deciso di affrontare una simile odissea. Loro, abituati al caldo e alla fatica, l’avrebbero evitata volentieri se avessero potuto. Io, la toubab, avevo scelto di condividere la loro quotidianità. Eravamo tutti fratelli, indipendentemente dalla lingua e dal colore della pelle. Ringraziai silenziosamente Abdul e Fodé per il dono meraviglioso che mi avevano fatto spingendomi ad intraprendere il viaggio via terra.

Quando ci rimettemmo in marcia, tirai fuori l’I-pod e cercai di rilassarmi un po’. Sentivo lo sguardo della donna fisso su quell’oggetto magico che trasmetteva musica. Ma avevo bisogno di un momento di raccoglimento per elaborare ciò che stavo vivendo, e non le diedi retta. Mi isolai perdendomi con lo sguardo lungo l’orizzonte. “C’est l’Afrique ma soeur!” mi aveva detto César poco prima di ripartire. “Miseria e privazione, ma anche tanta umanità e condivisione.” Quelle parole continuavano a risuonarmi nelle orecchie. Mi sembrò di riuscire a cogliere l’Africa in tutta la sua essenza. O forse ne ebbi semplicemente la presunzione. Guardavo fuori dal finestrino e sullo sfondo di un paesaggio arido e desolato scorrevano i volti sorridenti e i gesti semplici e calorosi di tutti i miei compagni di viaggio. Avrei voluto arrestare il tempo per fissare quell’immagine in movimento rendendola indelebile ed eterna. Un’immagine che racchiudeva il senso di quel viaggio. “Un ritorno allo stato primordiale e originario, che ci pone tutti sullo stesso piano, uguali nella diversità…” mi sentii pronunciare a voce alta, in uno stato di trasognata semicoscienza da cui mi risvegliai bruscamente quando l’autobus si arrestò per l’ennesima sosta.

La gente iniziò ad alzarsi lentamente. Impiegai qualche secondo per realizzare che eravamo finalmente giunti alla frontiera con il Mali. Scendemmo tutti, compresa la mia vicina che fino a quel momento era rimasta immobile come una mummia. I doganieri iniziarono a controllare i bagagli e noi attraversammo a piedi il confine senegalese, convinti che l’autobus ci avrebbe raggiunti nel giro di pochi minuti. Ancora una volta il destino ci giocò un tiro mancino. Tra noi c’era qualcuno che esercitava il commercio illegale, ma nessuno sembrava disposto a farsi avanti per dichiarare il malfatto. Iniziarono a perquisirci uno alla volta, più per spaventarci e spillarci dei soldi che per eccesso di zelo. Una trafila che durò quasi cinque ore. Quando infine i doganieri dovettero arrendersi all’evidenza, ammettendo di essere in errore, era calato il sole. Il tratto di strada che avremmo dovuto percorrere era in terra battuta. Inoltre, si paventava la possibilità di subire un assalto da parte dei banditi che popolavano la zona di confine.

Trascorremmo la notte a Kayes, città di frontiera. Alcuni dormirono all’interno dell’autobus. Altri, come me, preferirono buttarsi sul pavimento di una terrazza per respirare un po’. Kayes. La chiamano l’inferno. Dicono sia in assoluto la città più calda e umida di tutto il Mali, con temperature che raggiungono i cinquanta gradi… notturni!!! Ma in quel momento mi interessava poco. Ero finalmente giunta in Mali. Un sogno che si stava realizzando.

Un sogno nato quasi per caso da ragazzina quando, sfogliando svogliatamente le pagine di una rivista, ero stata catturata da un’immagine strepitosa. La falesia di Badiangara. La terra dei Dogon. Leggendo l’articolo correlato, avevo ripromesso a me stessa che un giorno sarei arrivata fin lì. E a distanza di quindici anni stavo per realizzare il mio sogno. Cosa me ne fregava di essere all’inferno, se l’inferno era la porta del paradiso? Mi addormentai immersa in queste elucubrazioni, sotto un cielo zeppo di stelle.

Ci svegliammo presto per rimetterci in marcia. Eravamo stremati e ansiosi di giungere a destinazione. Dei quattrocentoventi chilometri che ci separavano da Bamako, oltre duecento erano di pista. Impiegammo pressoché tutta la mattina per raggiungere un posto dove rifocillarci e dissetarci. Nessuno di noi aveva più la forza di comunicare. Ma lo sguardo eloquente dei miei nuovi amici mi esprimeva la loro solidarietà ed ammirazione. Ed era tutto ciò che in quel momento desideravo.

Alle tre del mattino arrivammo a Bamako. Non avevo un posto dove passare la notte, ma questo non mi preoccupava. Ero imbambolata davanti allo spettacolo di quella massa di uomini, donne e bambini, china sul pavimento, che ringraziava il suo dio per avercela fatta, ancora una volta.

Attesi l’alba alla gare routière in compagnia di tutti coloro che aspettavano la coincidenza per poter proseguire il viaggio verso le loro case. Poi, lentamente, mi rimisi in cammino. Avevo un appuntamento a cui non potevo mancare. La Falesia di Badiangara mi stava aspettando.

La Globetrotter

Clicca QUI se vuoi leggere altri racconti on the road sul MALI

Hai trovato questo post piacevole e interessante? Lasciami un commento e condividilo sui social!

Iscriviti alla Newsletter per non perderti le novità settimanali sul blog. Nuovi itinerari, racconti di viaggio, consigli pratici, approfondimenti culturali, partenze di gruppo e tanto altro!

22 pensieri su “Dal Senegal al Mali on the road. Il viaggio della speranza

  1. Linda de'Nobili dice:

    Ho letto dal Senegal al mali on the road….E mi è piaciuto molto perché perfettamente l ‘idea del viaggio con i suoi inconvenienti, le paure ma anche le sorprese inaspettate che ripagato di tutte le fatiche. Che dire…Diana il racconto parla molto di te, del tuo spirito d’avventura, della tua curiosità e perché no, anche del tuo coraggio. Complimenti
    Linda de’Nobili

  2. simo dice:

    Tata é stupendo!!!mi ha fatto ripensare al mio bamako dakar di un secolo fa..han fatto bene a consigliarti l’autobus..con il treno a me era andata peggio .un bacio,ti aspetto!!

    • Diana dice:

      Son contenta di essere riuscita a farti rivivere il tuo viaggio passato Simo… ma d’altronde si sa, il mal d’Africa esiste e una volta che ti ammali non c’è tempo che possa guarirti…

  3. giusy dice:

    Che dire …..grazie …affiorano ricordi della mia permanenza in Zimbabwe e Mozambico. ….un viaggio molto più comodo il mio.
    La mia impazienza ……le mie grandi contraddizioni….avevo 24 anni ……ricordi umidi ……❤

    • Diana dice:

      Grazie a te Giusy! Comodo o non comodo credo non abbia importanza, quel che conta è lo spirito con cui lo si affronta, il modo in cui ci si confronta con quell’altro, quel diverso, che andiamo a cercare, a volte con la presunzione di capirlo, altre volte, come succede a me, con il desiderio di ritrovarci… a presto!

  4. Riccardo bettoni dice:

    Anche questo, come del resto altri tuoi report, hanno il potere quasi magico direi, di portare il lettore dentro la tua esperienza vissuta. Bellissimo anche il montaggio video.Complimeti sinceri Globetrotter.

  5. mirco dice:

    Hai fatto in modo di rendere i tuoi lettori partecipi delle difficoltà e dell’umanità presenti in questo viaggio. Complimenti per il coraggio e la tenacia. E per come hai raccontato quest’esperienza

    • Diana dice:

      Ci sono esperienze che ti segnano particolarmente e ti lasciano il segno… a distanza di anni ricordo ancora tutto come se quel viaggio l’avessi fatto ieri, in primis il calore di tutte le persone incontrate su quell’autobus… grazie Mirco, buona giornata.

  6. rita dice:

    Carissima Dina, ho finito di leggere ora il tuo racconto “Dal Senegal al Mali on the road”…..Pian piano sto leggendo tutti i racconti che hai scritto nel tempo, e, mi ci vuole del tempo……Ho letto con tantissima attenzione, ammirazione, trepidazione, meraviglia tutto quello che hai vissuto, “patito”, sopportato in quel viaggio che per me sarebbe stato allucinante e, sicuramente letale……Un bellissimo racconto così dettagliato e “vivo”, da sentirmi catapultata lì nel tuo vissuto….Sei grande nella tua eccezionalità…Ti ammiro e ti abbraccio.

    • Diana dice:

      Che bello Rita, mi fa davvero piacere sentire che i miei racconti ti entusiasmano tanto! Così la voglia di scrivere, oltre che di viaggiare, resta viva…

  7. saby dice:

    L ho letto e riletto sto articolo non so quante volte….I brividi riaffiorano sulle braccia e la stretta al cuore mi ricorda il ns avventuroso fantasmagorico percorso..lungo le strade rosse del Mozambico ….
    Africa sempre e ovunque 1 love ! Grazie DI

    • Diana dice:

      E’ vero Saby! L’Africa è pazzesca, nonostante siano anni che non ci vado la sento dentro come allora! L’Africa mi ha resa sicuramente una donna migliore ed è per questo che mi ispira tanta poesia…

  8. Alfonso dice:

    Sono senza parole semplicemente DIANA,L’unica cosa che mi sono perso sono le ore di viaggio.Sono rimasto talmente incollato al racconto che mi chiamavano dall’ufficio e non sentivo il cellulare o meglio lo sentivo ma non volevo staccarmi dalla lettura.Immagino la scena tu incastrta su quella specie di sediolino inrrequieta con la tua vicina flemmatica dalla stazza di in Buddha.Incredulo sentire “se questo è l’inferno chi ce ne frega se ad aspettarmi c’è il paradiso”
    In questa narrazione c’è tutto cioè che ti rende unica:amore per il viaggiare,amore per la scrittura,amore per il prossimo senza distinzioni,quel tanto di sana follia,Ma soprattutto un self control quasi British.Alla prossima globtrotter……………..

    • Diana dice:

      Ero senza parole pure io caro Alfonso, soprattutto considerato che il giorno dopo mi sono rimessa a bordo di un altro torpedone per 12 ore e nel bel mezzo è sopraggiunta la maledizione di Tutankhamon… comunque devo dire che è un viaggio che mi ha cambiato la vita, nel vero senso della parola! Alla prossima…

  9. Fulvio dice:

    Emozionante!!!…..forse perché ho viaggiato tante volte sui bus africani , soprattutto in Mali , il racconto mi ha fatto ricordare le tante ore al caldo e le molte persone con cui le ho condivise . L’Africa vissuta in quel modo é unica , un’esperienza incancellabile .
    Brava e complimenti per il racconto .
    p,s, per un pelo non ci siamo incontrati : ho fatto lo stesso percorso , ma in moto , due mesi prima di te…..

    • Diana Facile dice:

      Cos’avrei dato caro Fulvio per incrociarti lungo il cammino! Un motociclista più “scampanato” di me su strade dimenticate da Dio, e per giunta italiano (che non è cosa da poco)! Chissà che non ci si becchi altrove prima o poi…
      Sono d’accordo con te, l’Africa vissuta in quel modo è indimenticabile… dura, difficile, impegnativa, ma è l’unico modo per viverla e capirla, almeno in minima parte!
      Un grande abbraccio

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *