Il lago Inle… di tutta la Birmania il posto che in assoluto ho amato di più!
Ci arrivo di mattina, alle prime luci dell’alba, dopo quindici ore di autobus notturno. Per intenderci… da Yangon a Nyaungshwe, sulla sponda settentrionale del lago, ci sono circa 450 chilometri.
L’esperienza bus birmano è assolutamente da provare, magari – se volete dormire un po’ – muniti di un bel paio di tappi per le orecchie di buona qualità. Già, perché dovete sapere che durante l’interminabile tragitto su un torpedone risalente a chissà quale epoca, la televisione ci tiene compagnia trasmettendo a tutto volume performance musicali e spettacoli comici che generano l’ilarità generale eccetto – ovviamente – la mia. Ma fin qui poco male! Quando attaccano con la serie di telefilm locali lontani anni luce dai canoni cinematografici occidentali mi chiedo cosa posso aver fatto di male nella vita per meritare un tale karma…
Comunque, dopo un cambio di mezzo a Shwenyaung vengo depositata a Nyaungshwe senza aver chiuso occhio! Poco male, ho l’adrenalina alle stelle e il sonno è l’ultimo dei miei pensieri. Non devo nemmeno dilungarmi nel cercare un alloggio perché è lui a trovare me: appena scesa dal bus trovo un bel gruppo di procacciatori di clienti che mi accoglie a braccia spalancate. Generalmente odio quando mi trovo in situazioni di questo tipo, mi sento aggredita, ma nel caso di specie, viste le difficoltà di comunicazione, è una manna dal cielo. Perché tanto, come sempre, non ho prenotato nulla…
Decido di trascorrere a Nyaungshwe un paio di giorni e visto che il cielo è terso opto subito per una gita in barca sul lago Inle. Siamo nella stagione delle piogge e potrebbe scatenarsi l’inferno da un momento all’altro. Come si suol dire, meglio un uovo oggi che una gallina domani. E poi l’etereo paesaggio lacustre è un toccasana non solo per il mio spirito ma anche, non so perché, per il mio corpo.

Opto per un tour abbastanza classico e mi accomodo a bordo di un’imbarcazione dall’aspetto longitudinale con i sedili posizionati in fila indiana timonata da un ragazzino che avrà si e no tredici anni di età: mi consola il fatto che all’altro capo ci sia Nu Nu, la guida, che ha abbondantemente superato la pubertà.

Iniziamo a scivolare sulle acque del lago Inle, uno dei must della Birmania. Nu Nu, che con l’inglese non se la cava male, mi rivela che fino al 1996 – in piena dittatura militare – il sito contava non più di quattro o cinque strutture ricettive mentre oggi c’è l’imbarazzo della scelta. “Pur essendo la stagione delle piogge” – continua – “il lago Inle è pieno di turisti e ogni giorno piroghe cariche di visitatori fanno la spola di villaggio in villaggio”. Sono perplessa. Se come dice lui ora è pieno di turisti mi chiedo come sarà negli altri periodi dell’anno! I turisti oggi muoiono di solitudine e l’atmosfera che si respira è a dir poco poetica: lontana dall’inquinamento acustico di Yangon, contemplo il paesaggio che sembra un quadro vivente e godo del puro piacere di essere qui.
“Narra la leggenda” – prosegue Nu Nu rompendo il silenzio – “che il re di Bagan Alaung Sithu stesse navigando verso la frontiera quando si trovò di fronte una montagna, sguainò la sciabola e le inferì un colpo per farsi strada verso la sua meta.” Mi sono sempre piaciute le leggende per cui lo incito a proseguire. “Attorno alla storia circolano numerose versioni secondo una delle quali la valle consegnata alle acque del fiume avrebbe dato i natali al lago Inle dove il sovrano, accompagnato da trentasei famiglie, fece poi costruire quattro villaggi”.

Le sue parole risvegliano in me il ricordo di qualcosa che devo aver letto prima di partire e ancora una volta lo invito ad andare avanti. Nu Nu mi racconta che il vasto bacino, prima di essere chiamato semplicemente Inle, si chiamava “Inléywa”, il “lago dei quattro villaggi”, e che il sito consta di quattro villaggi principali in cui vive la comunità degli Inta, i “figli dei laghi”, discendenti delle trentasei famiglie originarie, un popolo di pescatori e agricoltori la cui peculiarità è quella di remare, e pescare, su una gamba sola. Una tecnica ancestrale che somiglia a una danza e che gli Inta apprendono in tenera età: ci vogliono costanza ed esercizio per arrivare a padroneggiarla fino a renderla naturale, nobile e aggraziata come mi appare.

Ormai Nu Nu c’ha preso gusto e non smette di sorprendermi: pescatori al mattino e agricoltori il pomeriggio, gli Inta hanno sviluppato un sistema di coltura perfettamente in sintonia con l’ambiente circostante. Il lago pullula di orti galleggianti, un’immagine surrealista di una bellezza disarmante: fiori, frutta e verdura vengono coltivati su tralicci di legno sostenuti da tappeti galleggianti di vegetazione.
Mi si prospetta una giornata densa ed emozionante: dal villaggio di Inthein, da cui parte una lunga scalinata che conduce alla Shew Inn Thein e agli splendidi stupa dorati posizionati uno accanto all’altro, al Nha Hpe Kuaung, noto come il Monastero del gatto che salta; dai laboratori artigianali di sigari birmani ai mercati galleggianti che secondo Nu Nu avrebbero conservato interamente la loro autenticità.

La visita al laboratorio artigianale dove vengono tessute le fibre delle foglie di loto mi manda in estasi. Un lavoro laborioso e delicato che si conclude a fine giornata con la fabbricazione di qualche metro di tessuto e non di più, un’arte raffinata e molto apprezzata a livello mondiale.
Decisamente meno entusiasmante la sosta “forzata” – rientra nel pacchetto all inclusive – presso un negozio di artigianato che oltre a esporre manufatti di alta fattura… espone carne umana! Sapevo cosa mi aspettava e avrei potuto evitare di scendere, lo so bene, ma la curiosità è donna e ha sempre il sopravvento. E così mi ritrovo davanti alle famigerate donne giraffa dell’etnia Padaung, una minoranza di lingua tibeto-birmana che oltre a essere fisicamente martoriate – il peso degli anelli che circondano collo, braccia e caviglie può raggiungere i venticinque chilogrammi – diventano oggetto di curiosità alla stregua di un animale in gabbia.

Lo so, un buon viaggiatore che si rispetti dovrebbe avere la mente aperta per capire e accettare gli aspetti diversi della cultura in cui si imbatte… ma questo vale anche quando la cultura che si ritrova davanti è una barbarie? Già, perché sebbene questa consuetudine sia nata con l’intento di proteggere le ragazze dai morsi delle tigri, quindi con uno scopo nobile, con il passare del tempo è diventata sinonimo di bellezza e ammirazione fino a sfociare nel business dei giorni nostri. Se penso alla deformazione della colonna vertebrale che si traduce nell’effetto visivo del collo lungo da giraffa… non trovo altro termine per descriverla se non, appunto, barbarie!
Siamo a due ore di tragitto da Nyaungshwe quando un acquazzone ci investe all’improvviso cogliendoci del tutto impreparati! Non so a voi ma a me il paesaggio lacustre, sotto la pioggia, mette una malinconia infinita: tuttavia, nonostante le due ore di pioggia battente che mi fanno giungere a destinazione fradicia come un cencio, la magia della giornata resta intatta.

Per concludere in dolcezza mi getto sulla gastronomia locale ed eleggo il mio piatto locale preferito: un’insalata a base di foglie di tè che vengono bollite, messe ad asciugare, lasciate ossigenare e fermentare e infine condite con olio di palma, arachidi, sesamo e anacardi. Una prelibatezza che suona al nome di Le Phet.
La Globetrotter
Sei stato al lago Inle? Che sensazioni ti ha trasmesso? Ti aspetto nei commenti.
Mi sono sentito scivolare lungo le acque del lago Inle.
Nel 95 era il primo anno che concedevano il visto per 30 giorni, prima lo davano solo per una settimana, ne abbiamo approfittato subito….e ne siamo rimasti affascinati.
Pochi turisti, e tanti viaggiatori individuali che per primi si lanciavano ala scoperta di questo Paradiso.
Ti ringrazio per l’emozionante racconto e le meravigliose immagini.
Grazie a te Nuccio, leggere un tuo commento sul mio blog è un grande onore! A volte quando vedo le tue foto di viaggi lontani ti invidio sai? per aver visto luoghi al mondo quando ancora non c’era la globalizzazione! Il Myanmar è un bel paese, senza ombra di dubbio, ma sono sicura che se ci tornassi oggi, a distanza di vent’anni, lo troveresti un po’ meno Paradiso, magari semplicemente paradiso… ora come ora, per trovare il Paradiso, bisogna cercarlo laddove i. turista non giunge… un abbraccio e buona giornata! Grazie ancora…