San Basilio de Palenque, a 50 chilometri da Cartagena de Indias, è stata la prima comunità di schiavi a ottenere l’indipendenza dalla corona spagnola, ancor prima della stessa Colombia.
Era il 1603 quando Benkos Biohó, alla testa di un gruppo di schiavi cimarrones, fuggi al controllo di Cartagena e si insediò sul territorio dell’attuale San Basilio. Un pezzo di storia africana, tramandata di generazione in generazione, che si conserva nei Palenqueros attraverso la danza, la musica, la medicina tradizionale, la gastronomia e i riti ancestrali.
La storia di un popolo che non ha dimenticato le sue radici e che a distanza di secoli continua a lottare per mantenere viva la sua identità. E nel percorrere, sotto un sole assassino, le vie desolate di San Basilio de Palenque, nell’ammirare le acconciature delle donne di pelle nera, nel rispondere ai saluti della gente e agli inviti ad entrare nelle loro case, nell’ascoltare le storie di alcune di queste persone, ho sentito il richiamo dell’Africa.
L’ho sentito nel suono della sua lingua, quel creolo che coniuga la musicalità dello spagnolo e la durezza del bantù. Una lingua parlata da non più di quattromila persone che per loro era, ed è, un simbolo di identità.
San Basilio de Palenque, il cuore dell’Africa in terra colombiana
Il sole è allo zenit quando scendiamo dall’autobus e ci investe improvvisa una folata di aria secca e asfissiante. All’imbocco del sentiero che conduce a San Basilio de Palenque ci attende un folto gruppo di giovani in moto che per tremila pesos colombiani a testa ci sottrarranno al supplizio di dover percorrere a piedi, sotto un sole assassino, i sei chilometri che ci separano dal villaggio. Le trattative sono più rapide e indolori del previsto e dieci minuti dopo, per duemila pesos, i nostri driver ci depositano sulla piazza centrale di Palenque.
Ci infiliamo in un ristorante per placare l’arsura e rifocillarci. Accanto a noi un uomo dalla voce calda e rassicurante accompagna il nostro pasto con i racconti del suo paese. Racconti che invocano l’Africa come passato, presente e futuro.
Ma è quando usciamo dal ristorante e ci perdiamo lungo le strade in terra battuta del villaggio in cerca di un po’ d’ombra che il richiamo dell’Africa assume forme concrete. Il nostro incedere lento e sofferente attira l’attenzione di una coppia di anziani che ci invita a entrare in casa sua, salvandoci da un colpo di calore.

Ed è in questa coppia di anziani che ci apre le porte di casa sua e nell’ospitalità dettata dal mero desiderio di condividere, che ritrovo la mia Africa. Il loro desiderio di condividere con noi dei pezzi di storia ci spinge ad entrare.
“Chiedetemi tutto quello che volete sapere, se non so rispondervi non lo farò” – ci dice lui, 93 anni, ormai quasi completamente sdentato. Accanto a lui la moglie, 86 anni, che ci guarda come se fossimo marziani. Sono sposati da 70 anni e insieme hanno avuto dieci figli. Una è nata morta. Uno soffre di epilessia. Un’altra è stata partorita in cima a un monte ed è affetta da qualche strana malattia.
La sua nascita ha segnato le sorti della famiglia. Lui era sul punto di trasferirsi a Panama per lavoro, il che avrebbe significato senza ombra di dubbio un’esistenza più agiata ai suoi cari, ma ha scelto di restare accanto a lei, di non privarla del suo sostegno, continuando a raccogliere banane. Non c’è rammarico nei suoi occhi, non c’è il rimpianto per non averlo fatto.
Continua a parlare, a raccontarci di com’era Palenque all’epoca dei suoi nonni e dei suoi genitori, esprimendo una sorta di disagio per il cambiamento epocale di cui è stato testimone.
Ci rivela che un tempo le festività venivano celebrate con solennità, che per l’occasione si ammazzava il maiale e si aprivano le porte di casa agli ospiti per i tre, quattro giorni della ricorrenza. Oggi, però, non è più così. Oggi il Natale si festeggia in famiglia. E non con la grande famiglia, come la chiamano in Africa, dove l’amico del padre diventa un fratello ed è quindi membro della famiglia. “Perché non ci sono soldi e bisogna adattarsi alle situazioni” – mi confida con una punta di nostalgia.

È l’unica nota stonata che colgo nei suoi racconti e la domanda sorge naturale. Se dovessi tornare qui tra vent’anni, riuscirei ancora a sentire il richiamo dell’Africa? Continueranno i palenqueros a danzare al ritmo dei tamburi? A usare la medicina tradizionale per curarsi? A commemorare i defunti per nove giorni? A mantenere viva la loro lingua? Le loro tradizioni? Le loro acconciature? Le loro radici?
Forse anche lui si pone la stessa domanda e forse è per questo che vuole condividere con noi un pezzo della sua storia e a rendersi partecipe di un pezzo della nostra.
La Globetrotter
Conoscevi l’esistenza di enclave africane in America Latina? Ne conosci altre da suggerirmi? Ti aspetto nei commenti.
Se cerchi spunti per organizzare un viaggio nella terra di Márquez, leggi il mio post COLOMBIA TUTTA DA SCOPRIRE, un affresco su tutto ciò che questa meravigliosa terra ha da offrire. Altri articoli dettagliati sulla Colombia li trovi invece QUI.
Tra ottobre e novembre del 2014 ho partecipato al progetto 7MML Around the World 2015 in veste di giornalista: un giro del mondo solidale per documentare attraverso immagini e parole le abitudini alimentari del paese. Questo il video di Valeria Lo Meo, la filmmaker del team.
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