Ci sono luoghi leggendari che ci stuzzicano fin da bambini una sana curiosità, dico giusto? Ebbene, il Monte Ararat rappresenta per me uno di questi luoghi e così nel 2008, anno di magra per le mie finanze, ho deciso di organizzare un viaggio in Turchia in cerca dell’Arca di Noé. All’epoca tenevo il classico diario di viaggio cartaceo da cui traevo spunto, di ritorno a casa, per dilettarmi nella scrittura che restava relegata nelle mura domestiche. La Globetrotter nel tempo ha tirato fuori tutti questi racconti e anche questo sul Monte Ararat ha rivisto il sole. Uno dei primi post pubblicati sul blog che probabilmente, a chi mi legge da poco, sarà sfuggito per cui eccolo di nuovo qui, fresco come una rosa…

Alle pendici del Monte Ararat, da Dogubayazit all’Arca di Noe
Nella gelida piana dell’Anatolia Nord-Orientale, laddove convergono gli attuali confini di Turchia, Armenia e Iran, si innalza imponente una montagna che vibra al suono di Ararat e che pur non rientrando tra le cime più alte – 5.156 metri d’altezza – è unanimemente ritenuta una delle più inaccessibili al mondo.
Storicamente rilevante per i protagonisti che si sono susseguiti sul territorio – dal Regno di Urartu, acerrimo nemico degli assiri, ad Alessandro Magno che l’occupò durante la campagna per il dominio degli armeni, all’Impero Ottomano che l’assoggettò per ben tre secoli alla sua dominazione perpetrando, durante la Prima Guerra Mondiale, un genocidio mai riconosciuto nei confronti della popolazione armena – questa terra di confine è passata nel 1921 sotto la giurisdizione turca.
Ed è questa regione remota e dissestata, pressoché sconosciuta ai turisti ma mai dimenticata dagli armeni che la sentono ancora come la propria terra, a suscitare il mio interesse. Un sito intriso di storia sviluppatosi sotto lo sguardo indulgente del luogo mitico in cui, secondo la Genesi, dopo quaranta giorni e quaranta notti di pioggia, approdò l’arca con cui Noe e la sua famiglia si salvarono dal castigo divino.

Dogubayazit, una cittadina sonnolenta dove la gente è ancora curiosa quando incrocia un forestiero, è il punto di partenza privilegiato per conoscere la montagna sacra che le si innalza davanti in tutta la sua onnipotenza. Decido di noleggiare un’auto per visitare la zona e a riprova del senso di ospitalità che contraddistingue i locali conosco un ragazzo, Ousmane, che mi presta il suo fuoristrada, comprensivo di fratello minore nella veste di autista, per sfruttare al meglio la giornata.
Safeth mastica appena l’inglese e la comunicazione tra noi procede un po’ a singhiozzi per cui mi concentro sul paesaggio che ci accompagna lungo la strada.
La prima tappa è un villaggio armeno distrutto dal terremoto, e in parte ricostruito dal governo, che attualmente si trova sotto la giurisdizione curda. Scendiamo dall’auto e iniziamo a passeggiare, senza una meta precisa, addentrandoci tra le piccole case rossastre che si affacciano sulla strada impolverata. Un uomo anziano, seduto davanti all’uscio di casa con il berretto in testa e un camicione a quadri, ferma Safeth e ci invita a bere il tè con la sua famiglia.

Lasciamo le scarpe fuori dalla porta e ci accomodiamo nel salotto di questa semplice ed accogliente dimora. Un quadretto suggestivo e armonioso con la moglie, una donna straordinariamente arzilla che sprizza energia da tutti i pori nonostante dimostri vent’anni di più, le due dolcissime figlie e la nuora con prole al seguito… persone che pur non avendo nulla sanno sorridere ed essere ospitali.
Ci fermiamo con loro un paio d’ore sorseggiando tè e mangiando frutta secca, senza poter comunicare verbalmente ma con la volontà di abbattere le frontiere attraverso il linguaggio corporale. Osservo i volti di questa gente segnati dalla fatica e dal duro lavoro nei campi. Un villaggio che trae il proprio sostentamento dall’agricoltura e l’allevamento e che in inverno, completamente innevato, entra in letargo.
Un senso di pace, armonia, umanità e solidarietà aleggia nell’aria del soggiorno. Il tempo passa senza che me ne renda conto e pur non essendo entrata nei loro discorsi lascio la casa a malincuore.
Riprendiamo la strada e dopo una rapida sosta alle sorgenti di acqua rossa sulfurea raggiungiamo il sito in cui, nel mese di maggio del 2007, gli attivisti di Greenpeace hanno collocato una ricostruzione in legno dell’arca leggendaria, completamente isolata e avvolta da uno scenario mozzafiato, con monti e vallate che si alternano all’infinito sotto il cielo cobalto. Nessuna contaminazione, né visiva né sonora, disturba la quiete attorno a me.

Proseguiamo il cammino su una strada larga e desolata. Safeth si sforza di intavolare una conversazione ma è davvero complicato riuscire a comunicare e preferisco, ancora una volta, concentrarmi sul paesaggio. Mi fido ciecamente di lui, sa dove voglio arrivare e sono aperta a tutte le deviazioni inaspettate che, finora, non hanno deluso le mie aspettative.
Improvvisamente arresta la marcia e mi fa cenno di seguirlo. Oltrepassiamo un piccolo casolare in legno, che scoprirò essere un museo dedicato all’arca e al suo mito, e al cospetto del Monte Ararat con l’inconfondibile cappuccio di nuvole bianche che sembra vegliare su di lui accanto e il fratello minore, il piccolo Ararat, dalla cima totalmente sgombra.
Poi mi indica un solco nel terreno, ai piedi di una ripida scarpata, che ricorda la carena di una nave. Vorrei scendere ma non sono equipaggiata e il sentiero mi sembra ripido e impervio per cui mi limito a vagheggiare con la mente cercando di ricostruire la storia dell’arca con i lontani ricordi lasciati dall’insegnante di religione. Non mi convince.
Per quel che ne so, l’arca si trova sulla cima del monte, sepolta dalla neve, dove si sarebbe arenata in seguito al ritirarsi delle acque del diluvio. E qui siamo a circa 3000 metri di altezza, ben lontani dalla cima. Sembra inoltre che il monte, per volontà divina, sia inaccessibile all’uomo.
Una delle tante leggende sorte attorno all’arca narra dell’incontro onirico tra l’apostolo San Giacomo, che voleva raggiungere la cima del monte, e l’angelo che gli intimò di tornare sui suoi passi perché Dio non avrebbe permesso a nessun uomo di avvicinarsi al luogo in cui – presumibilmente – riposava l’arca. L’apostolo si risvegliò poi con un pezzo di legno tra le mani.
E fu così che alle pendici del monte Ararat, nei pressi del primo luogo in cui aveva abitato Noe dopo il diluvio, venne eretto un monastero dedicato al santo distrutto nel 1840 da un’eruzione vulcanica che spazzò via qualsiasi prova a favore del mito che vuole l’arca depositarsi qui.
Si sta facendo tardi e Safeth mi richiama all’ordine. Riprendiamo il cammino per fermarci poco dopo al bordo di un enorme buco nero. Saranno 60 metri di diametro per 30 metri di profondità. L’ipotesi, tutta da verificare, è che sia stato causato dalla caduta di un meteorite.

E’ stata una giornata lunga e rientriamo a Dogubayazit dove ci attende Ousmane con una sorpresa per me.
Dopo una cena frugale consumata per strada mi portano a Dyadin, che si trova a 50 km di distanza da Dogubayazit, per concludere in bellezza la giornata. La strada corre dritta nel mezzo di una pianura sterile, il sole sta tramontando dietro le montagne e le casse della macchina diffondono una melodia ritmica e coinvolgente, gitana e balcanica.
Lungo la strada i pastori radunano i greggi per condurli pigramente verso casa, semplici ricoveri in pietra.
Raggiungiamo Dyadin, ormai inghiottita dall’oscurità, e proseguiamo attraverso campi incolti. Non mi interessa sapere dove siamo diretti, sono distrutta e spero solo che ne valga la pena.

Una quindicina di minuti dopo Ousmane arresta la marcia e mi invita a scendere. Apro la portiera e mi travolge un odore penetrante di uova marce e zolfo. Scendo dalla macchina e affondo con le suole nel terreno molle e scivoloso. L’aria è pregna di umidità e man mano che i miei occhi si abituano all’oscurità inizio a intravedere delle sagome che tuttavia non riesco a distinguere.
Seguo Ousmane titubante mentre si avvicina a queste forme non identificate e con sollievo scopro che sono stalagmiti da cui escono, a fiotti, acqua bollente e vapore.
Un’esperienza incredibile… sotto il cielo stellato mi immergo nella vasca d’acqua calda per ritemprare corpo e spirito, persa nell’oscurità della volta celeste…

Purtroppo le foto non rendono giustizia ma credetemi… paesaggi stratosferici!
La Globetrotter
Cosa sai sul genocidio degli armeni? Io poco e nulla, lo confesso, ma è qualcosa che mi interessa approfondire. Il viaggio in Cambogia mi ha messo di fronte a un altro orrore e nonostante mi abbia turbato parecchio, ritengo sia un dovere sapere la verità. Se vuoi saperne di più leggi il mio post Per primo hanno ucciso mio padre, triste storia della Cambogia
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Cara Diana, con questo tuo racconto mi hai riportato nel ricordo della splendida Dogubayazit, visitata nell’aprile 2014, e della vista immensa dell’Ararat e dei suoi paesaggi mozzafiato…
Che piacere che mi dai Stefania, non è un luogo visitato da molti mi pare… ed è un peccato perché come hai ben detto i paesaggi che circondano l’Ararat sono realmente qualcosa di sublime… Grazie!!!
Su questa parte della Turchia non avevo mai letto i racconti di nessuno e per un attimo mi è mancato il fiato. Non sapevo ci fosse una ricostruzione dell’Arca e nemmeno avevo idea della bellezza pazzesca dei paesaggi. Deve essere stato un bellissimo viaggio.
Carissima Caterina, in effetti non è una zona molto turistica e credo non molti ne parlino! Si, è stato un bel viaggio fatto di gente non così avvezza al turismo come in altre parti… difficile a volte comunicare ma senza ombra di dubbio la ripeterei! E si… i paesaggi sono incredibili! Buona giornata…
Bello, bello, bello raccontato in modo divino con una semplicità disarmante tra storia, misticismo, e fede. Poi abbattere le barriere con il linguaggio del corpo ti rende straordinariamente unicaaaaaaa
Sei sempre un grande amico Alfonso! Grazie per l’incoraggiamento…
Rileggerlo a distanza di 8 mesi, non posso che collegarmi a un post su istagram. Che deliziosa terapia per iniziare la settimana lavorativa.A prestissimooooo
Sei semplicemente fantastico!!!
Ciao Diana, sfondi una porta aperta! Conosco i luoghi: Ani, Kars, Van, Gaziantep, Diarbakir, Nemrut, Gobekli…
Armenia e genocidio degli armeni, ho pianto fino a non aver più lacrime a Yerevan ed è stato lì che ho deciso “mai più mi farò spaccare il cuore”. Un popolo dolce e malinconico come le canzoni del grande Aznavour, gente riservata forse timida ma che ti dà tutto del poco che hanno…
Comincia, se non l’hai già fatto, a leggere La masseria delle allodole.
Bacisss
Ciao Norma, che bello trovare qualcuno che ha visitato quei luoghi meravigliosi e così poco battuti. Si, sono d’accordo con te, quel poco tempo trascorso con la famiglia mi ha lasciato una sensazione bellissima. Certo, me lo procuro subito! Grazie…
Posri meravigliosi . Ani mi ha lasciato un ricordo travolgente, ma glia altri non sono da meno. Chissà se ci si potrà tornare.
Anche a me Ani è piaciuta tantissimo! Molto più di Van, però anche io ho i ricordi un po’ confusi e lontani nel tempo e si, sono sicura che si potrà tornare, perché temi di no?