Nella parte settentrionale del Togo, uno degli stati più piccoli di tutto il continente africano, risiedono i Tamberma, etnia originaria del Burkina Faso insediatasi sul territorio intorno al XVI secolo. A differenza della zona di Kpalimé, che si contraddistingue per la presenza di una ricca e folta vegetazione, il nord del paese rivela un paesaggio savanico dal clima estremamente arido e secco. Confesso che non avrei mai immaginato di trovare tanta varietà in un paese minuscolo come il Togo. Varietà non solo paesaggistica e climatica ma anche, e soprattutto, culturale. Ti propongo quindi di visitare con me i dintorni di Kara e la valle dei Tamberma, altrimenti noti come Batammariba (les architectes de la terre). Ti dicono qualcosa?
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Kara e la valle dei Tamberma
Sono passate da poco le sei quando facciamo il nostro ingresso trionfale alla gare routière di Kara. Nove interminabili ore a bordo di un minibus scalcinato che ha lasciato Kpalimé questa mattina sotto le false spoglie di un confortevole “due piani”, con il carico sul tetto che a dir poco raddoppiava l’altezza del mezzo di trasporto!
Ormai avvezza a questi viaggi infiniti e logoranti, decido di giocare sporco e poco prima dell’alba mi presento davanti al conducente implorandolo di riservarmi un posto sul sedile accanto al suo. Di fare la sardina non ne ho proprio voglia e visto che tutto il mondo è paese e che una donzella sola è pur sempre da proteggere, con un paio di sorrisetti e sbattimenti di ciglia divento la privilegiata di turno.
Nell’attesa che concludano le loro assurde manovre, tra cui togliere la fila di sedili sul fondo per poter riempire il mezzo fino all’ultimo centimetro cubo, mi accomodo a terra e mi godo lo spettacolo gratuito offerto dalla gare routière.
I procacciatori di clienti corrono a destra e sinistra come forsennati, le donne sfilano portando in equilibrio sulla testa cibarie e bevande di ogni genere, i venditori ambulanti urlano a gran voce l’offerta del giorno (e hanno davvero tutto ciò di cui hai bisogno, anche quel che non immagineresti mai!), capre e galline razzolano beate in mezzo a minibus e taxi-brousse – reliquie di un tempo ormai andato che tuttavia continuano a funzionare – mentre i clacson strombazzano all’impazzata senza una ragione reale. Mi sembra di essere sullo set di un film di Kusturica!
Totalmente assorta dallo spettacolo delirante perdo di vista per un po’ il mio mezzo di trasporto e quando finalmente riprendo contatto con la realtà mi sento mancare! Eh già, perché in quel cubicolo dallo spazio ridotto saliranno ben ventidue passeggeri. Un piccolo ma non insignificante dettaglio visto che anche le postazioni davanti, normalmente riservate all’autista, al vice e al fortunato di turno che nel caso di specie sarei io accoglieranno, oltre a me e al conducente, ben tre persone e una bambina che mi carico sulle gambe per non sentirmi costretta a cedere il posto alla madre.
Egoista? Probabilmente si, ma l’idea di finire dietro, senza poter muovere nemmeno un dito, con il caldo asfissiante e su strade dimenticate da Dio per nove ore, nella migliore delle ipotesi, mi terrorizza parecchio ed è l’istinto di sopravvivenza ad avere la meglio.

Così partiamo.
Nove lunghe ore che trascorro ascoltando la gente dialogare in ewe, la lingua locale, senza capire una parola ma dilettandomi nel tentativo di cogliere i toni e i colori dei loro discorsi e delle loro voci mentre osservo il paesaggio con la piccola che mi dorme tra le braccia. Poco alla volta il verde lussureggiante di Kpalimé cede il passo al colore della terra bruciata, della paglia e del fieno, degli arbusti secchi e i toni caldi del Sahel si impongono lenti e inesorabili. Ogni tanto incrociamo minibus in panne, con la gente fuori accaldata e sofferente che pazientemente attende di poter ripartire senza sapere se, e quando, succederà.
Improvvisamente, dietro una curva, appare lei, la Faglia di Alekjo, una fenditura nella roccia che sembra essere stata modellata a colpi di sciabola. Il tutto incorniciato dall’infinità spaziale dei monti, alla mia sinistra, e del precipizio, chiaramente privo di guardrail, alla mia destra. Madre natura non sbaglia mai!
Finalmente, dopo nove eterne ore, raggiungiamo Kara. Ad attendermi trovo David, amico di amici, che mi accompagnerà a visitare il sito di Koutammakou dove risiedono i Tamberma, popolazione autoctona dell’omonima valle, e le Tata Somba, costruzioni che il nord del Togo condivide con il nord del Benin. Sono affamata e gli chiedo subito di portarmi a mettere qualcosa sotto i denti. Al morto, lo zaino, penseremo più tardi!
Ho voglia di fufu, piatto tipico di questa parte dell’Africa Occidentale che consiste in ignam o manioca accompagnato con salsa alla carne o al pesce. Chiedo a David di portarmi dalla migliore maman di Kara e ne ordino una doppi aporzione leccandomi le dita mentre lui ripiega su un piatto di spaghetti. Nous, les togolais, on en a marre de manger du fufu – afferma mentre affonda la forchetta nel piatto di spaghetti scotti e collosi per rispondere alla mia domanda inespressa. Ha l’aria di essere un bravo ragazzo e alla fine l’albergo diventa un materasso per terra in casa sua. Vorrebbe cedermi il letto ma declino categoricamente, non voglio abusare della sua gentilezza, e poi sono così stanca che non mi sveglierebbero nemmeno le cannonate!
È l’alba quando Morfeo mi scioglie dal suo vigoroso abbraccio. Mi sento fresca e riposata come una rosa, pronta ad affrontare un’altra ricca, sorprendente giornata.
Ci avviamo, di buon’ora, alla volta dei villaggi Kabié.

Alle sette del mattino il caldo è già inclemente. Dopo una breve tappa al bacino da cui proviene l’acqua potabile di Kara ci dirigiamo verso Pya, il villaggio natale del presidente del Togo, Faure Gnassingbé. Molto pittoresco, soprattutto perché stanno per celebrare il funerale di un diplomatico e tutto il paese è concentrato nella via principale per onorare il defunto. Le donne con i loro vestiti sgargianti da un lato, gli uomini con i loro abiti migliori dall’altro. Un chiacchiericcio amabile e rumoroso. In mezzo, un lungo corteo di macchine, tra cui quella dello stesso presidente. Cerco, invano, di respirare l’aria e l’atmosfera funerea che ci si aspetta in queste circostanze. La gente è gioviale, forse in virtù del fatto che li attenderà un ricco buffet alla conclusione del rito, o forse perché son lì solo per rendere omaggio a un membro dello Stato di cui magari disapprovavano anche l’operato.
Quando finalmente la strada si libera ci rimettiamo in moto per raggiungere la casa del fabbro del paese. David ha la malsana idea di sfrecciare baldanzoso davanti alla casa del presidente e ci becchiamo una bella lavata di capo dal militare di guardia che per poco non ci ritira il mezzo. David si prodiga in banali scuse mentre io mi allontano per evitare discussioni. Non sarebbe più semplice chiudere direttamente la strada? Come se uno fosse obbligato a seguire tutti gli spostamenti del presidente, o forse è semplicemente il modo per spillare denaro ai poveri malcapitati che, ignari della gravità delle loro azioni, si azzardano a commettere un tale sacrilegio? Noi ce la caviamo con una semplice strigliata e riprendiamo la strada per Tchare.
Giunti a destinazione entriamo nella stanza dove, per tre giorni a settimana, dalle due del mattino alle cinque del pomeriggio, il fabbro lavora con la sua famiglia. È l’unico del paese e si da un bel daffare per soddisfare le necessità della gente di Pya e dintorni. Forgia in media sette vanghe al giorno. È un lavoro duro e massacrante. Un uomo, con due lunghe tenaglie in mano, solleva il pezzo da lavorare e lo posa sui carboni accesi mantenuti in vita da una terza persona che li ventila senza tregua. Quando il ferro è rovente, le tenaglie si spostano e lo poggiano su una superficie affinché il fabbro possa cominciare a batterlo con una pietra del peso di diciotto chilogrammi per dargli la forma. Il medesimo procedimento viene utilizzato per perfezionare l’opera.

Tre bambini scalzi, dal ventre gonfio, corrono avanti e indietro, attraversando incuranti la stanza in cui vengono forgiati gli strumenti in condizioni così precarie. Li guardo strabuzzando gli occhi e chiedendomi cosa accadrebbe se uno di loro inciampasse finendo dritto dritto sui carboni ardenti. Nella migliore delle ipotesi resterebbe deturpato a vita. Chiudo gli occhi inorridita, ma Dio è grande e non succede nulla, quanto meno non sotto i miei occhi.
Lasciamo il fabbro alla sua attività e riprendiamo il cammino per la Valle dei Tamberma, nei pressi di Kanté, che in kabié significa “vieni ad abitare nella mia casa”. Ciò dovrebbe dare il senso dell’ospitalità di questo popolo. Un senso che purtroppo io non riesco a trovare. Mi è stato detto che fino a qualche anno fa i Tamberma, di religione animista, giravano nudi e vivevano di baratto. Ma dove arriva il turista arriva il desiderio, legittimo, di progresso e civiltà, e questo a discapito dello spirito originario.

Mentre percorriamo le strade desolate e cotte dal sole, avvistando qua e la qualche tata, veniamo fermati da un gruppo di persone che inizia a chiedere denaro in cambio di una foto al Vieux, il capo spirituale, il saggio, l’autorità suprema. Chiedo di visitare l’interno di una tata e a desiderio esaudito mi vengono chiesti nuovamente dei soldi. Ciò che mi colpisce è il fatto che la loro è una richiesta che sfuma nella pretesa, come se gli fosse dovuto.
Mi allontano stizzita con David che inizia a parlarmi un po’ delle tate, antichi fortini sormontati da torrette progettati per permettere ai suoi abitanti di difendersi dai nemici. Oggi questo bisogno è venuto meno e lo spazio adibito al lanciatore di frecce è un ripostiglio o un sedile, a seconda della necessità. Le scale che conducono al granaio altro non sono che tronchi d’albero a forma di Y con incise delle tacche, a intervalli regolari, su cui cimentarsi in un esercizio acrobatico. La terrazza luminosa cui si accede tramite una botola che funge da porta, offre una visione della valle a trecentosessanta gradi ed è qui che si cucina, si mangia, si chiacchiera e si dorme, nelle piccole stanze-alveolari che sovrastano le torrette. All’esterno, accanto alla porta, sono collocati dei piccoli altari dedicati agli spiriti, e i muri sono ornati da trofei di caccia.

Dopo averne osservata attentamente qualcuna, chiedo a David perché tutte le tata hanno l’ingresso rivolto a ovest e perfettamente in linea con la superstizione che permea ogni aspetto della vita in Africa, mi dice che l’est è il lato da cui provengono tutti i mali della società mentre l’ovest non apporta altro che prosperità e positività. Poi mi invita a seguirlo per mostrarmi l’iscrizione del sito di Koutammakou nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità come Paesaggio Culturale Vivente.
Continuiamo a gironzolare per la valle in moto fino a quando l’arsura diventa prepotente. Tra un villaggio e l’altro, che distano decine di chilometri, non c’è assolutamente nulla. Qualche tata stanca e solitaria sonnecchia sotto un baobab quasi spoglio, rompendo il paesaggio desolato e bucolico ma non il silenzio tombale che lo accompagna: sotto il sole cocente del pomeriggio sono tutti all’interno in cerca di un po’ di sollievo. Sono sempre le donne le più coraggiose, le famigerate portatrici, che rientrando a gruppetti di due o tre dal mercato animano il monotono sfondo stepposo.
Arriviamo a Kara assetati e affamati e l’invito della dirimpettaia di David di condividere con loro le pâtes è una manna dal cielo. Non stiamo parlando di haute cuisine – le pâtes sono talmente insapori che riempiono lo stomaco senza soddisfare i sensi e le salse di accompagnamento (sauce aux poissons e sauce aux grains de baobab) non sono certo abbondanti – ma l’atmosfera è conviviale e per me questo è il vero lusso.
Alla buvette di fronte mi procuro qualche Flag, l’unica birra presente in tutti i paesi dell’Africa Occidentale, e mi godo il piacere di questa serata deliziosa in compagnia di sconosciuti che mi hanno aperto le porte di casa, ma anche e soprattutto quelle del cuore.
La Globetrotter
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BELLISSIMO IL TUO VIAGGIO IN TOGO MI E PIACIUTO UN SACCO TANT’È CHE CI ANDRÒ
e ti piacerà un sacco… un paese umile e povero ma con tanta dignità! bacio
Non vedo l’ora di conoscere e immergermi in questo meraviglioso mondo dei Tamberna, l’Africa è un mondo ancestrale che ci ricollega alla terra, al nostro io più profondo. E una volta che la incontri, non puoi più farne a meno!! Vive l’Afrique
Si Riccardo, vive l’Afrique! Ogni volta che penso all’Africa sento il cuore aprirsi in un abbraccio, anche se sono anni che manco… troppi forse!