¡Bienvenida! è un racconto, nulla più e nulla meno. É il racconto di un pezzo di viaggio a bordo di un cargo nell’Amazzonia peruviana, un mero esercizio di stile che mischia finzione e realtà scritto per il puro piacere di farlo.
***
L’aria di Yurimaguas è pregna di umidità e non concede tregua nemmeno di notte. Sono tre mattine che mi alzo fradicia. L’assenza di sonno pesa sul mio umore come piombo, soprattutto prima di aver bevuto le mie due tazze di caffè. Il loco Champi invece ronfa beato non appena tocca il cuscino ed è già chino a sistemare il suo zaino.
– “Lista Diosa?” — mi chiede con il solito tono squillante che appena sveglia mi disturba come gesso sulla lavagna.
– “Champi, Ti ho detto di non chiamami Diosa, ¡por favor!”
– “Pero tu eres mi Diosa Dianita, lo sai…” — replica mellifluo, poi ride di gusto e riprende. — “Oggi sono ottimista, vedrai che si parte!”
– “L’hai detto ieri, e anche l’altro ieri” — ribatto sbuffando. — “Sono stufa marcia del caldo, dell’umidità, delle zanzare, tutto il giorno ad aspettare che parta il cargo. Tu fai quel ti pare! Io, se non si parte nemmeno oggi, torno a Tarapoto e domattina mi imbarco sul primo volo per Iquitos”.
– “Paciencia Dianita, è questo che ti manca per essere una Diosa de verdad” — mi risponde senza scomporsi. — “Ora vado a prenderti un caffè e vedrai tutto in un’altra prospettiva”.
Definitivamente, sa come prendermi.
L’idea di fare questa tratta in cargo navigando lungo un pezzo di Río Amazonas mi accompagna dal primo viaggio in America Latina. Me ne parlò Jean, il francese conosciuto ad Antigua Guatemala che aveva attraversato via terra tutto il continente sudamericano e che insinuò in me il virus del viaggio a lungo termine. Pendevo dalle sue labbra, carica di ammirazione per il coraggio di vivere una vita libera, priva di punti di riferimento, ancora ignara del fatto che da lì a qualche anno avrei fatto una scelta molto vicina alla sua. Tra le tante cose che mi raccontò, la navigazione in cargo nella foresta amazzonica toccò corde che non credevo di possedere. Per questo so di aver detto una bugia. Non raggiungerò Iquitos in un’ora di volo, la raggiungerò in tre giorni di barca, dovessi restare qui un’intera settimana.
Per la terza mattina consecutiva, prima che il sole si faccia assassino, ci carichiamo lo zaino sulle spalle e raggiungiamo a piedi il porto. Noto subito un certo movimento, un via vai disordinato di persone che anticipa l’imminente partenza. Ci precipitiamo verso la María Carmen. Il Champi mi precede facendosi largo tra la ressa e io lo seguo come se fossi la sua ombra. Dall’improvviso slancio delle sue braccia verso l’alto intuisco che stanno caricando.
– “Dove compriamo il passaggio” — urla il loco Champi verso un uomo a torso nudo alle prese un pacco più grosso di lui. Ci fa cenno di seguirlo mentre si incammina. Procede rapido nonostante il peso sulla schiena fino alla passerella che conduce al cargo, poi ci indica un uomo sulla destra, in piedi accanto a una porta aperta. Ci avviciniamo. Con le dita gialle di nicotina conta una mazzetta di banconote, la sigaretta gli penzola dalle labbra.
– “Hola jefe” — lo saluta Champi. — “Siamo pronti a salpare?”

– “Si Dios quiere” — risponde l’uomo con un sorriso mezzo accennato. — “Mi spiace ragazzi, ma siamo al completo” — prosegue anticipando la domanda.
– “Come al completo! Ieri sera non c’era nemmeno il carico e nel giro di poche ore sono finiti i posti? Dimmi che è uno scherzo!” — sbotto verso di lui, cogliendolo alla sprovvista con la mia irruenza. Si irrigidisce, qui le donne difficilmente alzano la voce contro gli uomini.
La mano del Champi sulla spalla sinistra è un tacito invito a lasciar parlare lui. Mi sposto di un paio di metri e rollo una sigaretta, osservando la scena a distanza. Parlano qualche minuto, il volto dell’uomo si distende e poco dopo i due sono hermanos che ridono e si battono il cinque. Spengo la cicca e li raggiungo, scusandomi con il nuovo amico per la mia reazione.
– “A las diosas se les perdona todo, Dianita. ¡Vamos!” — mi risponde ammiccando con malizia.
I latini sono machisti, ma sono anche dei romanticoni. Non so cosa gli abbia raccontato il Champi su di noi ma poco importa. Siamo sulla María Carmen e a breve vedrò il mio sogno realizzarsi. Gongolo, anche se il merito non è mio.
Ci portiamo all’interno. Il piano trabocca di gente intenta ad appendere l’amaca che fungerà da letto per le prossime due notti. Ci saranno un centinaio di persone, a malapena lo spazio vitale per respirare. Questo Jean l’aveva omesso, penso sconfortata. Il nostro amico non si ferma, attraversa lo spazio in fermento e imbocca una scala che ci conduce al piano superiore.
– “Espero les guste hermano” — dice rivolto al loco Champi, accompagnando le sue parole con una pacca sulla spalla.
– “¡Claro que sí jefe, è perfetto” — gli risponde — mentre gli allunga la dovuta mancetta. — “¿Contenta Diosa? — mi chiede una volta rimasti soli.
– “Contentissima Champi, sei il mio mito”.
Individuo l’angolo in cui sistemare l’amaca e lascio lo zaino per tenere il posto occupato, poi scendo a comprare l’acqua. Abbiamo calcolato tre buste da cinque litri l’una, necessaria anche per lavarci i denti e le mani prima di mangiare. Champi il pittore resta a bordo con la scusa di sorvegliare i bagagli e starà già montando tela e cavalletto per liberare la sua creatività.
Mi assento una decina di minuti e al ritorno la María Carmen è pronta a salpare. Il loco Champi, affacciato al parapetto, si sbraccia e mi urla di darmi una mossa. Faccio lo slalom tra il groviglio di amache con le borse in equilibrio sulla testa e sospiro con sollievo: sembra che la gente sia lievitata a non finire e l’aria umida raggiunge i polmoni con fatica.
Al piano superiore siamo in otto e dividiamo una ventina di metri quadrati, forse qualcuno in più. Un lusso rispetto a chi sta sotto di noi, ma d’altronde abbiamo pagato il supplemento per questo, come i nostri compagni di bordo: due argentini, un brasiliano, un colombiano e una coppia mista, peruviano lui e francese lei. Siamo le uniche due donne del gruppo e abbiamo lo stesso nome, anche se scritto diversamente. Ci accomuna anche la nazionalità del nostro accompagnatore, pur non rivestendo lo stesso ruolo: per me il Champi è un amico, Diane e Rafael sono una coppia.
Mi affaccio al parapetto. La María Carmen molla gli ormeggi e prende il largo. Osservo il porto allontanarsi fino a quando scompare dalla mia visuale, poi decido di seguire l’esempio degli altri e monto l’amaca. Il movimento della barca, accompagnato dal brontolio incessante del motore, concilia il sonno e incurante del caldo opprimente, scivolo tra le braccia di Morfeo. Mi sveglia il Champi all’improvviso.

– “Dianita, dove sono i tupperware? Stanno servendo il pranzo” — mi incalza con occhi famelici.
– “Di già? Ma quanto ho dormito?”
– “In barca si mangia presto e abbiamo saltato la colazione” — risponde lasciando la frase in sospeso, a mo’ di preghiera.
Mi alzo stordita come se mi avessero tirato una palata in testa e cerco i tupperware nello zaino. Gli altri sono in fila, pronti a ricevere la loro razione. Noi siamo in fondo, tra gli ultimi, e mi auguro che in cucina abbiano fatto bene i conti altrimenti non si mangia. Vero che divideremo quattro latrine con non so quante persone per i prossimi tre giorni e meno cibo introduco nel corpo, meno rischi corro, ma l’alternativa del digiuno non è granché.
Dopo una buona mezz’ora di coda, torniamo ai nostri posti con un misero bottino tra le mani: riso bianco e due pezzettini di pollo in umido. Siamo lontani dall’eccellenza della gastronomia peruviana, ma possiamo ritenerci fortunati che nei dieci dollari del biglietto siano inclusi i pasti. È concorde anche il Champi, abituato a ben altri standard.
Il pomeriggio scorre agile, chiacchierando con i nostri vicini di letto. Al piano inferiore ci sono gli indigeni: c’è chi torna a casa dalla famiglia e chi invece si sposta per lavoro. Molte le donne con bambini e un voluminoso carico di bagagli. Noi, invece, siamo viaggiatori e tra le ragioni che ci spingono a Iquitos ce n’è una che ci accomuna tutti: l’ayahuasca. Sono l’unica ad aver già partecipato a una cerimonia con questa pianta e per una decina di minuti mi bersagliano di domande. Poi, a turno, ci presentiamo.
Javier e Pablo, i due argentini, sono giocolieri e stanno attraversando il continente sudamericano da sud a nord: avanzano di pari passo con i soldi che guadagnano strada facendo. Art viene da João Pessoa, nel nord-est del Brasile, e da qui inizierà il suo viaggio di ritorno navigando il corso del Río Amazonas fino a Belém, da dove poi, con un volo, tornerà a casa. Norbey, il colombiano, è quello che suole definirsi un aficionado: passa la vita in viaggio tra Perù, Ecuador e Colombia, alternando terra e fiume per passare da un paese all’altro e si mantiene vendendo artesanía. Diane e Rafael si sono conosciuti due anni fa e non si sono più lasciati. In Francia lei insegnava musica, qui suona il clarinetto per strada e lui l’accompagna con la chitarra. La mia vita, tutt’altro che convenzionale, mi sembra banale al confronto. Glisso sulla mia presentazione e chiedo loro di suonarci qualcosa. Non si fanno pregare e mentre Art rolla una canna, tirano fuori gli strumenti e improvvisano un pezzo jazz. Basta davvero poco per fare di noi un’allegra comitiva che si distingue solo per la diversa inflessione dello spagnolo.
Con il movimento l’afa si attenua e cede il passo a una leggera brezza. Il bisogno di andare in bagno diventa impellente, Diane è nella mia stessa situazione. Posa il clarinetto, estrae il rotolo di carta igienica dalla tasca del suo zaino e mi guarda con un’espressione di disgusto dipinta sul volto. — “Ecco che arriva la parte difficile” — mi dice dirigendosi verso la scala. Il resto si fa, non si racconta: è parte del prezzo per vivere un’esperienza straordinaria.
Guarda verso il ponte stracolmo di amache. Sono addossate l’una all’altra, il che vanifica qualsiasi tentativo di scoprire quanti siamo a bordo. È quasi l’ora di cena sebbene siano passate da poco le cinque e ci fermiamo giù, pronte a metterci in fila. Alla mia sinistra un’anziana india ci osserva incuriosita. Io e Diane parliamo in francese e lei sta cercando di indovinare da dove veniamo, glielo leggo in faccia. Rompo il ghiaccio e mi presento, allungando la mano. Lei la prende tra le sue e la apre sul palmo accarezzandola con le dita deformate dall’artrosi. Ci chiede se siamo sole e si rallegra nel sapere che siamo accompagnate, poi abbassa lo sguardo sulla mia mano aperta che tiene ancora stretta tra le sue e intona una litania in lingua indigena. Perché abbia scelto me non lo so, così come ignoro quel che sta dicendo, ma so che è un segno. La sua voce si spegne senza preavviso. Abbassa la testa, mi restituisce la mano e si allontana in silenzio, lasciandomi godere un insolito tepore. Diane mi scuote già con la confidenza di un’amica. — Ça va? — mi chiede con tono rassicurante.
– Ça va, merci — rispondo sgombrando la mente. — Se ti dicessi che le mani di quella donna emanavano un calore tale da ribollirmi il sangue, mi prendi per pazza?
– No, accadde anche a me la prima volta che venni in Amazzonia. Rafael direbbe che è il suo modo per dirti ¡bienvenida! — Era una sciamana, non l’hai capito?
Il brusio attorno a noi diventa fluido in movimento, stanno per servire la cena e la gente si prepara a infoltire la fila. Diane sale ad avvisare gli altri e prendere i contenitori mentre io tengo il posto per tutti e frugo con lo sguardo tra le teste in cerca della vecchia, ma invano. Mi piace pensare che Diane abbia ragione e che l’Amazzonia mi stia dando il benvenuto. Mi sento meglio che a casa; del resto mio padre mi chiede spesso, ironico, se sono davvero figlia sua. Il Champi si avvicina con le dita sporche di pittura, scaccio i pensieri bui e lo accolgo con un sorriso.
– La Pacha Mama mi ha presa sotto la sua ala protettrice, caro il mio Champi — gli sussurro in un orecchio. Lui è un indio della sierra, prima di lasciare Arequipa siamo scesi al fiume per rendere omaggio alla Madre Terra affinché benedicesse il nostro viaggio e gioisce sincero nell’ascoltare le mie parole.
Torniamo ai piani alti con le ciotole colme di riso e lo stesso pollo in umido del pranzo, nella medesima quantità. Mangiamo in silenzio, con il rombo costante del motore in sottofondo e Inti, il Dio Sole, che si immerge davanti a noi pennellando il cielo di arancione.

La Globetrotter
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Bellissimo racconto
Grazie Anna, sei sempre molto cara!
Testo letto con ammirazione e nostalgia per i miei viaggi passati, oggi ultrasettantenne confinato a tempo indeterminato in un quieto isolotto delle Maldive. Brava!
Grazie mille Vittorio! Però mica male l’isolotto alle Maldive! Peccato che io non sia un’amante del mare altrimenti ti raggiungerei!
Un abbraccio
Un lungo racconto molto avvincente , appassionante e intrigante nello stesso tempo . Questa lettura ha suscitato in me quasi le stesse sensazioni ed emozioni vissute dall’autrice , che è riuscita a descrivere le proprie esperienze di un lungo viaggio , con la sensibilità propria dei romanzieri . Ho appreso tante cose nuove . Grazie 🙏😘
Grazie infinite Wilma per questo tuo commento, sono davvero felice di aver suscitato in te belle emozioni!